Parliamo ancora di alta sensibilità in quanto l’articolo dello scorso numero ha suscitato notevole interesse e domande. Mi ha stupito in particolare accorgermi di quanti di voi si siano sentiti liberati nel considerare più il loro tratto di alta sensibilità non come un limite, ma come una marcia in più con cui affrontare la realtà.
La grande empatia e la capacità di connettersi al livello di percezioni sottili con ciò che ci circonda sono come delle antenne che ci consentono di cogliere più aspetti della realtà, in particolare l’aspetto emotivo delle situazioni. Se però questa capacità non è accompagnata da quella di definire con chiarezza il nostro confine, essa ci lascia spesso in balia degli altri.
Questo anche perché per un altamente sensibile è di primaria importanza la social cognition, ovvero la capacità di comprendere il comportamento degli altri e di capire l’atteggiamento più adeguato da avere in relazione non solo a questo, ma anche al bene del gruppo.
Gli altamente sensibili, infatti, hanno tendenzialmente più a cuore il bene del sistema – in senso sia famigliare che esteso – che il proprio, motivo per cui mettono spesso da parte le proprie esigenze a vantaggio di ciò che pensano essere il bene maggiore per tutti.
Di più, la loro grande empatia li porta spesso ad una sorta di contagio emotivo, per cui tendono facilmente a confondere i propri sentimenti e bisogni con quelli degli altri.
Da quanto detto, è perciò facile comprendere perché in un sistema famigliare gli altamente sensibili siano solitamente i più suscettibili ai ricatti emotivi e ai cosiddetti “mandati famigliari”, ovvero a quello che ritengono debba essere il loro destino o compito per il bene della famiglia.
Per questi motivi è importante che alla conoscenza e alla valorizzazione del tratto dell’alta sensibilità, si affianchi anche la capacità di centrarsi nuovamente su di sé, per comprendere se i nostri bisogni autentici siano alla base delle nostre azioni.
Nel porsi questo interrogativo, molte persone altamente sensibili potrebbero rimanere perplesse e pensare che sia troppo difficile ripartire dai propri bisogni, soprattutto se sia loro stessi che il sistema che li circonda mai ne ha mai tenuto troppo conto, beneficiando piuttosto del loro sacrificio.
In effetti cambiare questo stato di cose è faticoso, poiché comporta uno stravolgimento piuttosto radicale della propria esistenza. Mi piace citare a tale proposito una frase di Gary Goldstein: «puoi cambiare solo te stesso, ma questo cambierà ogni cosa».
È bello essere sensibili e per questo quasi sempre disponibili per gli altri, ma se non si può o non si sanno dire anche dei no, quella disponibilità non è un vero dono di se stessi ma una sorta di percorso obbligato che ci porta quasi sempre al sovraccarico e talvolta al ruolo di vittima.
Trasformare l’alta sensibilità in un dono comporta quasi una resurrezione, per la quale parte di ciò che ci ha accompagnato fino ad un certo punto deve morire per compiersi nella sua forma più piena.
[Articolo tratto dalla rivista dell’ANAP]
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