Siamo inseriti in una armonia cosmica e siamo fatti di vibrazioni. In pochi sanno che già a quattro mesi di vita prenatale siamo in grado di ascoltare rumori, suoni, urla o risate. Siamo sincronizzati sul battito del cuore di nostra madre e sul tono della sua voce. Ed è per questo che niente tranquillizza il bambino come la voce della mamma.
Quel sonoro è uno dei primissimi modi in cui facciamo esperienza del mondo. Prima di parlare cantiamo o almeno ci proviamo nella cosiddetta fase della lallazione intorno ai 6 mesi di vita. I bambini si nutrono di musica ed è facile vederli stare a bocca aperta quando qualcuno canta per loro, come davvero volessero nutrirsi di quel canto.
Che il suono e la musica siano da sempre canali preferenziali di espressione e comunicazione non è un’idea nuova. Già Schopenauer considerava la musica come la più alta forma d’arte perché l’unica in grado di essere goduta senza il bisogno di alcuna mediazione.
Ma è da molto più indietro, fino ad arrivare alla mitologia greca, che viene riconosciuto il potere magico del canto tanto che Ulisse decise di farsi legare per non essere ammaliato dal canto delle sirene. Questo perché la musica è da sempre in grado di coinvolgerci e di farci attingere alle nostre emozioni più profonde e nascoste.
Lo vediamo dai bagni di folla ai concerti delle più note star, lo vediamo nei locali in cui qualcuno suona e per qualche motivo tutto cambia e la musica diventa una sorta di aggregante. Lo vediamo nell’amore, seppur più di nicchia, per la lirica che perdura nel corso dei secoli.
Lo vediamo mentre guardiamo un film in cui riusciamo a trattenere le lacrime fin quando non irrompe un pezzo strappa lacrime. Chi non ha pianto ad esempio quando Celine Dion cantando “my heart will go on” faceva uscire tutta la tristezza e la forza della protagonista.
E noi, piangendo, facevamo uscire a nostra volta tutta la nostra tristezza. Questo perché, si sa, la musica ha anche un potere catartico. Ci permette cioè di far uscire e liberare le emozioni, anche quelle più nascoste. Penso allora al pifferaio magico che attraverso la sua musica libera la città dai topi conducendoli nel fiume.
Ma si può piangere anche di gioia e in questo godere di una emozione che talvolta teniamo nascosta dentro di noi e ben custodita come per paura che qualcuno ce la possa sciupare.
Mi torna in mente un grande classico come “tutti insieme appassionatamente”, in cui Giuly Andrews è in grado attraverso il suo canto di sciogliere le dinamiche militaresche di un padre vedovo che, ferito nei suoi sentimenti per la perdita della moglie, aveva messo una barriera tra il suo cuore e i suoi figli.
Saranno la musica e il canto a risvegliarlo dalla sua anestesia emotiva e a permettergli di ritrovare la gioia di essere padre e uomo. La musica è infatti anche in grado di risvegliare parti addormentate di noi e di farci sentire meno soli, perché capace di evocare emozioni e vissuti che talvolta non si possono esprimere a parole.
Benigni in una delle poche canzoni da lui interpretate cantava che “nell’amor le parole non contano, conta la musica”. Ovvero la sintonia, l’accordo, che si percepisce anche senza dire niente. Perché anche in quel apparente niente si può percepire di sottofondo una musica.
La musica è dunque da sempre quella dimensione magica in grado di muoverci, di emozionarci, di farci piangere e ridere, di darci il senso di essere in armonia con il creato e di non essere poi così soli. In questa dimensione già magica di per se, il canto diviene la magia nella magia, quel luogo in cui il corpo diviene strumento della musica e l’anima vibra all’unisono col corpo.
La nostra voce, si sa, è già di per sé uno dei punti centrali della nostra persona e personalità, ma nel canto accade qualcosa di ulteriore, ovvero che la persona e la personalità accedono ad un altro livello di espressione, vibrazionale più che verbale, emotivo più che razionale e che le diverse parti in gioco in ognuno di noi si attivano per armonizzarsi l’unica con l’altra.
Per questo nel lavoro coi miei pazienti quando mi raccontano in modo monotono e monocorde eventi che a mio avviso hanno un grande substrato emotivo suggerisco loro di pensare ad una musica o ad una canzone in grado di esprimere quello che hanno vissuto o il loro stato d’animo nel momento in cui me lo stanno raccontando.
La prima resistenza è quella di non essere intonati. Ma basta spiegare loro che cantare è uno dei bisogni che la maggior parte di noi non esprime per vergogna quando in realtà non c’è alcun bisogno di essere intonati per poter sperimentare la gioia di cantare.
Si canta per sentirsi, per far sentire la propria voce, per vibrare in sintonia con l’universo, per far uscire attraverso il canto le emozioni, per divertirsi, perché semplicemente come diceva Luca Barbarossa in una canzone “siamo fatti di terra, di fuoco, di vento, di sangue di musica e parole”.
Accade così che persone che non si erano mai date questo permesso hanno come l’impressione di rinascere nel cantare e di conoscersi sotto un aspetto nuovo. Forse allora dovremmo rivalutare le mamme che cantano per tranquillizzare i loro bambini ovunque si trovino o i fidanzati che ancora fanno le serenate fiduciosi del potere della magia del canto.
Ma anche coloro che molto semplicemente cantano sotto la doccia, consapevoli che non solo l’acqua ma anche il canto ha un potere rigenerante. Provare per credere.
Pubblicato su ANAP, rivista n. 23