Viviamo in una società, quella occidentale, globale, complessa e complicata, in cui fin da piccoli, passiamo più tempo davanti alla TV o al tablet che a parlare o a giocare coi propri genitori, a parte qualche bella eccezione.
La televisione li illude di non essere soli, ma, in realtà, parla soltanto lei, non ascolta, né tanto meno risponde alle domande. Non parliamo poi dei ragazzi che, secondo le statistiche, sono ad altissimo rischio di dipendenza dal web.
Il mondo chiuso in una chat
Ripercorro ogni giorno con alcuni di loro a studio il loro mondo relazionale vissuto quasi esclusivamente su whatsapp.
Frasi slegate, parole sbagliate, in cui spesso la risposta dell’altro è quello che si chiedeva prima, in cui l’altro lascia la comunicazione appena le cose si complicano.
Quasi mai avviene che qualcuno proponga di vedersi per chiarire, rimanendo così entrambi in preda a un profondo senso di solitudine e angoscia.
Isolati l’uno dall’altro
Tra gli adulti, seppur in minor percentuale e co modalità più raffinate, il senso di profonda solitudine è vivo dappertutto.
Alla posta, in metro allo studio del medico, quasi nessuno osa più parlare e rompere quella guaina di silenzio in cui ciascuno può rimanere assorto negli aggiornamenti del proprio telefonino.
Che fare? Come rompere il silenzio e l’indifferenza che ci rende un arcipelago di piccole isole? Come creare ponti?
Non c’è una risposta unica per tutti. Ognuno ha il suo vissuto e il suo percorso, ma la strada è sempre la relazione.
La risposta in un romanzo
Voglio rispondervi con la mia esperienza, che ho racchiuso nel libro edito da Aracne, Dalla solitudine all’amore.
Avere delle persone con cui uscire la sera non significa non essere soli. Pur desiderando tanto l’amore, non ero capace di scoprirmi davvero per la paura profonda di perdere quello che avrei potuto trovare.
Perché mettersi in gioco, si sa, prevede anche la possibilità di perdere l’altro e rimanere di nuovo soli.
Dalla solitudine all’amore
Nel libro parlo di un passaggio, quello dalla solitudine all’amore, che ho potuto fare grazie all’incontro vero e profondo con una persona speciale, l’ultima degli ultimi, una schizofrenica che viveva reclusa in casa da oltre vent’anni.
Solo contattando la sua solitudine stridente e sorda ho potuto contattare la mia, più sottile e fatta di barriere invisibili.
E’ stato in virtù della sua vita mancata e da reclusa di una libera prigionia, che ho trovato la forza per mettermi pienamente in gioco non solo con lei, ma con la persona che allora rappresentava per me il rischio di legarmi davvero a qualcuno. E che oggi è mio marito.
La relazione è solo la relazione, quella vera e non virtuale, può curare le ferite dell’anima. Questo è il mio augurio per voi.
Letizia Cingolani
(Articolo pubblicato in Rivista dell’ANAP).